Una spedizione militare dalla Romagna verso le Marche papali era stata predisposta da Garibaldi nel settembre del 1859, quando era secondo in comando della Lega, nata nell’agosto del 1859 come accordo difensivo e militare tra Toscana, Modena e la Romagna ed al cui comando era l’esule modenese Fanti. La Lega era nata per prevenire un eventuale attacco delle truppe papali, che intendevano riprendere possesso delle Romagne con l’aiuto del Re di Napoli.
In quel periodo Garibaldi ripercorreva la pineta e la palude di Ravenna dove era transitato nel 1849 con Anita in occasione della ritirata dopo il periodo della Repubblica Romana. Garibaldi aveva portato con sé dalla Valtellina, Cosenz, Medici, Bixio ed un grosso numero di volontari desiderosi di continuare sugli Appennini la guerra interrotta a metà sulle Alpi. Sul fiume Rubicone i romagnoli ed i volontari da ogni parte d’Italia premevano su Garibaldi per farsi guidare a sud della Romagna ex pontificia e liberare le Marche ancora sotto la dominazione papale. Contemporaneamente Mazzini raccoglieva fondi per acquistare armi e, tramite i suoi amici, inviava messaggi a Garibaldi perché procedesse ad invadere le Marche, progetto che in quel periodo incontrava l’atteggiamento favorevole del Farini e del generale Fanti, il quale il 19 ottobre scriveva a Garibaldi di passare il confine nel caso in cui qualche territorio papale fosse insorto. Successivamente tale atteggiamento favorevole all’invasione del territorio papale verrà ritirato a seguito delle osservazioni del Ricasoli e del Rattazzi, successore di Cavour, a causa del grave pericolo di azioni militari da parte della Francia e dell’Austria. Il 12 novembre, dopo un colloquio con Farini e Fanti, Garibaldi acconsentì a non intervenire, ma poche ore dopo lo stesso Garibaldi inviava loro il seguente telegramma:

«La rivoluzione è scoppiata nelle Marche: devo andare ad aiutarla.»

(Garibaldi e i Mille, G.M. Trevelyan, pag. 153-154-155)

Garibaldi si era già messo in marcia, nonostante la notizia dell’insurrezione fosse falsa, quando venne fermato da un pronto contrordine del Farini e del Fanti, lo stesso Vittorio Emanuele II convinse Garibaldi della necessità di attendere ancora, offrendogli il suo fucile ed il grado di generale nell’Esercito Piemontese, Garibaldi accettò in regalo il fucile del re cacciatore, ma rifiutò il grado di generale, quindi i volontari si ritirarono. In quel periodo Mazzini scriveva:

«La rivoluzione che si ferma in un sol luogo è perduta

(Garibaldi e i Mille, G.M. Trevelyan, pag. 157 – Fam. Crauford, 181)

In effetti Mazzini e Garibaldi erano convinti che si dovesse agire finché lo spirito rivoluzionario fosse stato vivo e ben presente in tutta la penisola e di questo era profondamente convinto anche Cavour che con il suo amico De La Rive si era espresso al riguardo con le seguenti parole:

«Sarò accusato di essere un rivoluzionario, ma più che altro preme andare avanti, e andremo avanti.»

(Garibaldi e i Mille, G.M. Trevelyan, pag. 158 – De La Rive, 401)

 

La politica britannica nel 1859

Fino alla Seconda guerra di Indipendenza l'atteggiamento del governo britannico Derby era favorevole all'Austria, al punto che uno degli ultimi atti del Ministero conservatore era stato l'invio a Napoli dell'ambasciatore Henry Elliot, con il compito di convincere il re delle Due Sicilie a non unirsi al Piemonte nella guerra contro l'Austria e perfino lo stesso atteggiamento di neutralità inglese era in questione.

Dopo le elezioni del maggio 1859, con il nuovo governo Palmerston, l'atteggiamento britannico cambiò indirizzo politico. In questo periodo, principalmente ad opera dei suoi politici Palmerston, Russel, Gladstone, l'Inghilterra iniziava a simpatizzare per la causa dell'unità italiana, sia per personali simpatie del suddetto "Triumvirato" britannico, come allora veniva chiamato, che per l'evidente interesse di impedire una influenza francese sulla penisola italiana, in quanto un'Italia unita ed indipendente poteva fare a meno della protezione della Francia. Il cambiamento politico filo-italiano, che sarebbe seguito alla nomina del nuovo governo Palmerston, era conosciuto ed atteso con impazienza, al punto che, dopo le dimissioni del governo Derby, quando l'11 giugno 1859 lord Hartington pronunciò il discorso alla Camera annunciando il nuovo governo, il rappresentante del Piemonte salutò l'avvenimento con grande entusiasmo così descritto:

«... (il rappresentante del Piemonte) ... gettò il cappello all'aria e le braccia al collo dell'attaché francese Jaucourt, un atto a cui nessun ambasciatore, neanche se italiano, si era mai abbandonato in un luogo pubblico.»

(Garibaldi e i Mille, G.M. Trevelyan, pagg. 148-149)

Anche l'ambasciatore inglese a Torino, Sir James Hudson salutò con favore il nuovo corso politico favorevole all'Italia, che si espresse subito dopo l'armistizio di Villafranca con il sostegno politico alla causa di Toscana, Modena e Romagna contro il ritorno dei vecchi governanti e con il principio della non ingerenza negli affari interni della penisola italiana. Tale principio sarà fondamentale quando impedirà l'adozione del blocco navale anglo-francese nello Stretto di Messina, richiesto da Francesco II per impedire il passaggio di Garibaldi nell'Italia continentale, decisione alla quale contribuì anche l'intervento dell'anglo-italiano Sir James Lacaita, appositamente inviato dal Cavour. Il Lacaita, benché molto malato, il 24 luglio 1860 riuscì ad ottenere un colloquio con Lord Russell, per evitare un accordo del britannico con il francese Victor de Persigny.

La maggior parte del ceto medio britannico simpatizzava per l'unità italiana ed in Inghilterra erano presenti da tempo associazioni di raccolta fondi per la causa dell'unità italiana, come la "Emancipation of Italy Fund Committee", il "Italian refugee fund" del 1849, la "Society of the Friends of Italy", il "Garibaldi Fund" del 1859 ed altre, la cui opera era favorita anche dalla presenza in Inghilterra di Mazzini e parecchi altri esuli italiani, che svolgevano opera di informazione e sensibilizzazione sull'opinione pubblica britannica, attivi furono Aurelio Saffi, Jessie White Mario, Alessandro Gavazzi e Felice Orsini.

 

Il contesto storico

La seconda guerra di indipendenza terminò l'11 luglio 1859; i termini dell'armistizio di Villafranca, voluto da Napoleone III che riconoscevano al Regno di Sardegna la Lombardia (con l'esclusione di Mantova), ma lasciavano Venezia e tutto il Veneto in mano austriaca, crearono malcontento in gran parte dei patrioti unitari italiani. Già dal maggio 1859 le popolazioni del Granducato di Toscana, della Legazione delle Romagne (Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì), del Ducato di Modena e del Ducato di Parma scacciavano i propri sovrani e richiedevano l'annessione al Regno di Sardegna, mentre il governo pontificio riprendeva pieno possesso dell'Umbria e delle Marche le cui popolazioni subivano una dura repressione, culminata il 20 giugno 1859 nella sanguinosa repressione di Perugia per opera delle truppe svizzere pontificie al servizio di Pio IX.

Napoleone III e Cavour erano reciprocamente in debito: il primo poiché si era ritirato dal conflitto prima della prevista liberazione di Venezia, il secondo perché aveva consentito che i moti si estendessero ai territori dell'Italia centro-settentrionale, andando quindi oltre quanto convenuto con gli accordi di Plombières. Lo stallo venne risolto il 24 marzo 1860, quando Cavour sottoscrisse la cessione della Savoia e del circondario di Nizza alla Francia e ottenne in cambio il consenso dell'Imperatore all'annessione di Toscana ed Emilia-Romagna al Regno di Sardegna.

Nel marzo 1860, quindi, restavano in Italia tre Stati: il Regno di Sardegna, con Piemonte (inclusa Aosta), Liguria, Sardegna e ora Lombardia (eccetto Mantova), Emilia-Romagna e Toscana; lo Stato Pontificio, con Umbria (inclusa Rieti), Marche, Lazio (con l'intoccabile Roma) e le exclave di Pontecorvo e Benevento; il Regno delle Due Sicilie, con Abruzzo (inclusa Cittaducale), Molise, Campania (incluse Gaeta e Sora), Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia. A questi si può aggiungere la piccola Repubblica di San Marino, che tuttavia si mantenne sempre distante da ogni spinta unificatrice col resto della penisola. Bisogna aggiungere che l'Impero austriaco di Francesco Giuseppe poteva ancora essere considerato una potenza con forti interessi nella penisola italiana, poiché possedeva intere regioni come il Regno Lombardo-Veneto (ora limitato a Veneto, Friuli e Mantovano), il Trentino e la Venezia Giulia, anche se non controllava più indirettamente né la Toscana né Modena governati fino al 1859 dai rami cadetti degli Asburgo-Lorena di Toscana e degli Asburgo-Este, succeduti alle antiche casate dei Medici e degli Este. Senza dimenticare la Francia, ora nel doppio ruolo di potenza protettrice di Roma e principale alleato del Regno di Sardegna: ciò che permise a Napoleone III di mantenere una decisiva influenza sulle faccende italiane, sino alla fine del suo impero (battaglia di Sedan del 1870), e che sarà determinante nel 1860. Napoleone III, difatti, impediva al Regno di Sardegna tanto un'azione contro l'Austria (senza il suo sostegno), quanto un'azione contro Roma (con la sua opposizione), in base agli accordi di Plombières.

Il Regno delle Due Sicilie era guidato da un monarca giovane e inesperto (Francesco II, succeduto al padre Ferdinando II solo il 22 maggio 1859, meno di un anno prima della spedizione); nel 1836 il reame borbonico aveva peggiorato le relazioni con il Regno Unito, a cui doveva la sopravvivenza durante il periodo napoleonico, con la Questione degli zolfi. Infine, il Regno delle Due Sicilie era caduto in una sorta di isolamento diplomatico: aveva rifiutato la partecipazione alla guerra di Crimea al fianco di Francia e Regno Unito, al cui fianco viceversa prese parte il Piemonte, e finì con il poter contare solamente sulle proprie forze.

Il regno meridionale era ancora lo stato più esteso e poteva fare affidamento su un esercito (il più numeroso della penisola) di 93 000 uomini (oltre a 4 reggimenti ausiliari di mercenari) e sulla flotta più numerosa di stanza nel Mediterraneo (11 fregate, 5 corvette e 6 brigantini a vapore, oltre a vari tipi di navi a vela). Come ricordava Ferdinando II, era difeso "dall'acqua salata e dall'acqua benedetta", cioè dal mare e dalla presenza dello Stato della Chiesa, che, protetto dalla Francia, avrebbe teoricamente impedito ogni invasione via terra dal nord Italia.

Nell'autunno-inverno del 1859 Francesco II propose a Francesco Giuseppe (marito di sua cognata l'imperatrice Elisabetta) di intervenire a sostegno delle rivendicazioni di Pio IX, di Ferdinando IV di Toscana e dei Duchi di Modena e Parma per restaurare i deposti sovrani sui loro troni e territori in Italia centrale, spodestati dalle insurrezioni non previste negli accordi di Plombières. Tuttavia l'Austria, appena uscita militarmente sconfitta dal conflitto della seconda guerra d'indipendenza, non era più in grado di rivestire quel ruolo di restauratore che aveva svolto nei passati decenni e declinò la proposta. L'iniziativa si scontrava direttamente con la politica di Torino e di conseguenza, di Parigi, dal momento che Napoleone III per giustificare all'opinione pubblica francese la guerra condotta contro l'Austria, doveva annettere alla Francia i territori oggetto degli accordi di Plombières. Quando negli ambienti diplomatici europei, nell'autunno 1859, circolò l'idea di una conferenza riguardante la risistemazione dell'Italia a seguito dei recenti eventi, Francesco II si dimostrò indifferente, non cogliendo l'opportunità di mostrare una presenza attiva internazionalmente.

 

La situazione nel Regno delle Due Sicilie

Nel corso degli anni, erano state diverse le ribellioni che i Borbone avevano dovuto sedare: i moti siciliani del 1820 e del 1837, la rivoluzione calabrese del 1847, la rivoluzione siciliana del 1848-1849 e quella calabrese dello stesso anno, e il movimento costituzionale napoletano del 1848. Per due volte, infatti, i Borbone avevano riguadagnato il trono in seguito all'intervento degli eserciti austriaci: nel 1815 l'austriaco Federico Bianchi sconfisse l'esercito napoletano di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, nella battaglia di Tolentino e, ancora, nel 1821 l'austriaco Johann Maria Philipp Frimont sconfisse un secondo esercito napoletano, quello di Guglielmo Pepe, nella battaglia di Rieti-Antrodoco. Nel 1849 le forze borboniche, che cercavano di invadere la Repubblica Romana furono affrontate e vittoriosamente respinte dai volontari italiani comandati da Garibaldi.

Nel giugno 1859 si ebbe una rivolta di una parte dei reggimenti di mercenari svizzeri (il 3º Reggimento Svizzero), in conseguenza del fatto che il governo elvetico quell'anno decise che i suoi cittadini non avrebbero più potuto prestare servizio militare in potenze straniere, e parte delle truppe mercenarie al soldo dei Borboni vennero disciolte.

I liberali napoletani comunque, non avevano forza sufficiente neanche a imporre una costituzione, nemmeno dopo Solferino. Essi erano però, presenti in buon numero nelle alte cariche dell'esercito e dell'Armata di Mare, lo storico de Cesare afferma che, fin dallo sbarco di Garibaldi in Sicilia, Francesco II non poté di fatto più contare sulla marina e solo pochi ufficiali di marina rimasero fedeli alla causa del re di Napoli. Dopo la vittoria franco-piemontese nella battaglia di Magenta a Napoli si ebbero vivaci manifestazioni anti austriache dei liberali che convinsero Francesco II a nominare il generale Carlo Filangeri primo ministro e ministro della guerra, non lasciandogli tuttavia scegliere i ministri del suo governo

La popolazione delle province continentali conservava la suddivisione in due parti politiche, o "due nazioni" secondo la definizione di Vincenzo Cuoco: la prima di possidenti e la seconda del popolo delle campagne e della capitale (ovvero i lazzari); quest'ultima era generalmente vicina alla dinastia borbonica, come avevano dimostrato il successo del movimento sanfedista, che nel 1799 aveva rovesciato la Repubblica Napoletana, con strage dei giacobini del regno, e la resistenza antifrancese del periodo 1806-1815, il fallimento della Spedizione di Sapri di Carlo Pisacane del 1857 e come dimostrerà anche il successivo e complesso fenomeno del brigantaggio postunitario, mentre la prima si era manifestata con i moti costituenti nel 1820 a Napoli, i moti del Cilento nel 1828, i moti di Penne nel 1837, i moti di Reggio Calabria del 1847 e di Sicilia e Calabria del 1848 ancora nel Cilento nel 1848 e nello stesso anno a Napoli con l'ottenimento della Costituzione revocata l'anno seguente.

Prima dell’arrivo di Garibaldi si era pensato al complotto contro il nuovo re Francesco II e la giovanissima consorte Maria Sofia di Baviera, l’ascesa al trono dei giovani sovrani avrebbe suscitato sentimenti di gelosia da parte della vedova di Ferdinando II e matrigna di Francesco II, la precedente regina Maria Teresa, che mal si rassegnava alla perdita del potere. Si pensò allora a una congiura con l’aiuto della “camarilla” per sostituire Francesco II con il Conte di Trani, secondogenito della regina madre austriaca, ma le supposte prove raccolte dal Filangieri vennero gettate nelle fiamme del camino dallo stesso Francesco II, che pronunciò le parole “É la moglie di mio padre”.

 

I mazziniani e la Sicilia

L'unica delle forze opposte ai Borbone che mostrasse la volontà di scendere in armi, in quel 1859, era l'indipendentismo siciliano: a partire dall'ottobre di quell'anno si erano registrati sull'isola focolai di protesta e Salvatore Maniscalco, direttore generale della polizia sull'isola, era scampato a un tentativo di assassinio.

I ricordi della lunga rivoluzione che aveva portato ai mesi del regno di Sicilia costituzionale erano ancora vividi, la repressione borbonica era stata particolarmente dura e nulli i tentativi del governo napoletano di giungere a un accomodamento politico. Inoltre, l'insofferenza non era limitata alle classi dirigenti, ma coinvolgeva, anche se con motivazioni e obiettivi differenti, una larga fascia della popolazione cittadina e rurale: congiuntura pressoché unica nel corso dell'intero Risorgimento. A dimostrazione di ciò, infatti, vi sono le adesioni di volontari alle schiere garibaldine da Marsala a Messina, sino al Volturno.

Molti dei quadri dirigenti della rivoluzione del 1848 (tra cui Rosolino Pilo e Francesco Crispi) erano espatriati a Torino, avevano partecipato con entusiasmo alla seconda guerra di indipendenza e avevano maturato un atteggiamento politico decisamente liberale e unitario. Proprio i mazziniani, invero, vedevano nella Sicilia insurrezionalista, nell'intervento di Garibaldi e nella monarchia sabauda gli elementi fondanti per il successo della causa unitaria. Il 2 marzo 1860, infatti, Giuseppe Mazzini scriveva una lettera ai Siciliani incitandoli alla ribellione e dichiarava: "Garibaldi è vincolato ad accorrere".

In particolare, Rosolino Pilo ebbe un preciso ruolo nel porre le basi per una nuova sollevazione in Sicilia. Sempre nel mese di marzo 1860 questi, intenzionato a salpare alla volta dell'isola, si era rivolto a Garibaldi, prima chiedendo armi e poi invitando il nizzardo a un intervento diretto al di là dello stretto. Garibaldi, però, si era tirato indietro ritenendo inopportuno qualsiasi moto rivoluzionario che non avesse avuto buone probabilità di successo. Il nizzardo avrebbe guidato una rivoluzione solo se a chiederglielo fosse stato il popolo e il tutto fosse avvenuto in nome di Vittorio Emanuele II. Solo con il contributo delle popolazioni locali e l'appoggio del Piemonte, infatti, Garibaldi avrebbe contenuto il rischio di un fallimento, evitando risultati simili a quelli avuti in precedenza dai fratelli Bandiera o da Carlo Pisacane. Pur non avendo ottenuto l'immediato sostegno di Garibaldi, il 25 marzo Rosolino Pilo partì comunque per la Sicilia con l'intento di preparare il terreno per la futura spedizione. Accompagnato da Giovanni Corrao, anch'egli mazziniano, il Pilo giunse nel messinese e prese immediatamente contatti con gli esponenti delle famiglie più importanti. In questo modo egli si assicurò l'appoggio dei latifondisti. I baroni, infatti, una volta sbarcato il corpo di spedizione, avrebbero rese disponibili le bande che erano al loro servizio, i cosiddetti picciotti.

La situazione in Sicilia si faceva difficile anche per il capo della polizia Maniscalco, che nonostante i suoi duri metodi non riuscì a impiegare le “Compagnie d’arme”, specie di vigilantes, per guidarle contro gli insorti, in quanto queste ultime rifiutarono di assolvere a tale compito e il governo non ebbe il coraggio di punirle per tale mancanza.

Nel maggio del 1860 Mazzini scriveva una denuncia contro la possibilità della cessione della Sardegna alla Francia per la nascita di uno stato nazionale comprendente altri territori, analogamente a quanto era avvenuto in precedenza per cessione della Savoia e Nizza.

 

La rivolta della Gancia a Palermo

A Palermo, il 4 aprile, si accese la fiamma della rivolta con un episodio, subito represso, che ebbe tra i protagonisti, sul campo, Francesco Riso e, lontano dalla scena, Francesco Crispi, che coordinò l'azione dei rivoltosi da Genova. Nonostante il fallimento, con la repressione borbonica che portò alla fucilazione in piazza di 13 manifestanti, l'accaduto diede il via a una serie di manifestazioni e insurrezioni nel Distretto di Palermo a Bagheria, Misilmeri, Capaci e infine a Carini che divenne l'epicentro della rivolta, tenute in vita dalla famosa marcia di Rosolino Pilo da Messina a Piana dei Greci, fra il 10 e il 20 aprile. A coloro che incontrava lungo il percorso il Pilo annunciava di tenersi pronti "…che verrà Garibaldi". Lì si riunirono con i rivoltosi provenienti da Palermo e dai circondari.

La notizia della sollevazione fu confermata sul continente da un telegramma cifrato inoltrato da Malta da Nicola Fabrizi, fondatore della Legione italica, il 27 aprile. Il contenuto del messaggio, non eccessivamente incoraggiante, accrebbe le incertezze di Garibaldi tanto da indurlo a rinunciare all'idea di una spedizione. Tale fu la delusione tra i sostenitori dell'impresa, che Francesco Crispi, che aveva decodificato il telegramma, sostenendo di aver commesso un errore, ne fornì una nuova versione. Quest'ultima, molto probabilmente falsificata dal Crispi, convinse il nizzardo a intraprendere la spedizione.