Il latifondo nel senso considerato è un fenomeno quasi esclusivamente italiano e la sua formazione risale storicamente alle conquiste operate dai Romani dopo le guerre puniche e all'acquisizione all'ager publicus di vasti territori, ripartiti in grandi aziende agricole gestite con lavoro servile. Il numero dei latifondi, ridotto grazie alle riforme agrarie dei Gracchi, di Silla e di Cesare, andò tuttavia aumentando negli ultimi anni dell'Impero.
Sul latifondo romano s'innestò la struttura economica feudale e da questa trasse origine il latifondo moderno. Il fenomeno fu aggravato dalla costituzione da parte della Chiesa di grossi patrimoni fondiari, rimasti sino al sec. XVIII. Se al Nord il feudo longobardo, con le sue ampie possibilità di frazionamento e la presenza di una fitta rete di corsi d'acqua, impedì lo sviluppo del latifondo, nell'Italia centromeridionale esso trovò la sede ideale. Nemmeno la soppressione dei feudi operata durante l'età napoleonica nell'Italia meridionale e in Sicilia portò a una modificazione della struttura economica e sociale. I grandi proprietari terrieri si limitarono a speculare sul monopolio della terra, preferendo aumentare la rendita fondiaria con l'estensione delle proprietà, anziché rischiare investimenti di capitale che avrebbero permesso un incremento della produzione.
Dopo l'unificazione, negli anni dal 1881 al 1922, il problema del latifondo fu a più riprese dibattuto nel Parlamento italiano, ma nessuno dei vari progetti di legge presentati trovò la via dell'approvazione. Il regime fascista non affrontò il problema del latifondo e si limitò alla bonifica integrale e alla colonizzazione di zone non coltivabili. Solo nel 1940 venne istituito l'Ente di colonizzazione del latifondo siciliano in un momento in cui la sua attività non poteva che essere nulla a causa dei gravi problemi posti dal conflitto mondiale.
Nel dopoguerra, con la legge regionale del 27 dicembre 1950, si è stabilità l'obbligatorietà della bonifica e della colonizzazione, pena l'espropriazione, e si è trasformato tale Ente in un Ente per la riforma agraria in Sicilia. Analoghe iniziative sono state prese in altre regioni centromeridionali, nel quadro della legislazione sulla riforma fondiaria e degli interventi della Cassa per il Mezzogiorno.
Il superamento del latifondo, almeno nelle sue forme più esasperate, si è in seguito consolidato per effetto di frazionamenti spontanei o successioni ereditarie. Il Parlamento italiano ha ulteriormente contribuito all'attenuazione del fenomeno con la legge 4 agosto 1978 n. 440, cui hanno fatto seguito norme regionali di attuazione, sulle terre incolte abbandonate o insufficientemente coltivate. Sotto il profilo economico e sociale, la politica agraria della Unione Europea ha contribuito, infine, alla maggiore efficienza produttiva e alla stabilizzazione dei redditi.
Unità Politica e Territoriale
Sotto il dominio di Roma il nome della Magna Grecia e delle sue città, anche se decadute, che diedero splendore a questa epoca, perdurava e se ne ricordavano gli antichi fausti.
Con Giulio Cesare si raggiunse l’unità dei domini romani, mentre Augusto cercò di dare ad esso una unità politica, completando la suddivisione dei territori in regioni. Infatti del Bruzio e della Lucania, Augusto ne fece la terza regione Italica, iniziando un vasto processo d’integrazione con l’elemento greco conclusosi con una rapida latinizzazione per la presenza di Roma con i suoi coloni e la sua organizzazione societaria.
Si formò il profilo regionale ed il concetto di cittadinanza fu liberato dagli antichi pregiudizi. Ma Augusto non fu soltanto un grande organizzatore nel campo politico e militare. Egli tese infatti a sviluppare e a diffondere nei territori conquistati la cultura latina che ebbe sotto il suo impero un notevole impulso sotto il profilo letterario, storico, poetico ed artistico. Insomma Roma assume l’aspetto degno di una capitale del mondo adornandosi di monumenti che si fondono armoniosamente con la finezza dell’arte ellenistica e di quella romana.
Sotto il suo regno, egli potè governare con tranquillità e col consenso quasi generale non essendovi stati alcuni seri tentativi di rivolta. Tutti erano in pace. Quella pace che Augusto aveva saputo assicurare alla Repubblica. Con la sua morte, avvenuta nel 14 d.C., per suo volere, gli succedette Tiberio, suo figlio adottivo, che seguì la sua politica, rinsaldando i vincoli con le province romane.
Il latifondo in Calabria
Le guerre puniche avevano ridotto la Calabria in uno stato di grande povertà e, svanito il pericolo annibalico, la romanizzazione della regione potè procedere con più vigore. Le piccole e medie proprietà scomparvero lentamente a vantaggio dei grandi latifondi a manodopera servile. La Magna Grecia era ormai definitivamente distrutta e con essa l’organizzazione comunitaria, le tradizioni, i costumi e i dialetti.
Gran parte del territorio della Sila e degli altri boschi calabresi divennero ager publicus con l’avvio di tagli indiscriminati, dando un colpo mortale all’assetto idrogeologico di tutta la penisola calabrese, caratterizzato da un arretramento delle linee di traffico verso l’interno, abbandonando l’ampio versante jonico.
L’arroccamento delle popolazioni e l’abbandono delle coste, si accompagnavano alla messa a coltura delle terre nelle alte valli. Ne conseguiva la degradazione del territorio con un lento smottamento verso il basso che incrementò l’esodo verso le montagne e l’abbandono di ogni attività marinaresca.
La struttura latifondistica calabrese si dimostrò ben presto molto debole in quanto gli stessi proprietari non investivano sui loro terreni per migliorare la redditività delle colture o dei pascoli. Essi miravano solo ad estendere i loro già consistenti possedimenti onde conservare il provento unitario che dagli stessi poteva derivargli. Una siffatta logica caratterizzò sempre le classi alte, medie e basse della società calabrese, secondo la quale non era tanto il buon uso della terra l’elemento decisivo, ma la sua proprietà. A scegliere un tipo di soluzione produttiva innovativa, richiedeva investimenti notevoli senza la speranza di una rimunerazione a breve scadenza. Ma una siffatta scelta era anche obbligata dalle condizioni climatiche della regione che erano piovose in inverno ed asciutte nelle rimanenti tre stagioni.
E’ chiaro che un tipo di economia di questo genere, non poteva che restare debole e nei secoli successivi questo tipo di struttura fu mantenuta accentuando la debolezza socio economica della Calabria e dei suoi abitanti.
Il latifondo in Sicilia
L'origine del feudalesimo in Sicilia va ricercata in ogni dominazione che ha subito l'isola. Infatti ogni conquistatore cedeva appezzamenti di terra ai propri uomini d'arme che erano stati fedeli, che divenivano vassalli. Unica eccezione la fecero gli Arabi, che non utilizzarono questo metodo.
Il feudo però non era sfruttato perché veniva coltivato in parte a grano e fave mentre il resto veniva lasciato incolto per i pascoli. Il padrone del feudo, che apparteneva al ceto dei galantuomini, si rifugiava nei castelli per via delle rivolte popolari nelle campagne e a guardia lasciava le guardie campestri (o campieri) e le Compagnie d'Armi. Le zone che contavano più feudi erano le province di Palermo, Girgenti (oggi Agrigento) e Caltanissetta. L'aristocratico padrone del feudo, chiamato anche barone o galantuomo, godeva del Mero e Misto Imperio, cioè il diritto di amministrare la giustizia civile e penale all'interno del proprio feudo.
I Borboni, volendo togliere l'antico potere agli aristocratici ed abbattere il vecchio istituto giuridico feudale, approvarono nel 1812 una Costituzione. Secondo quest'ultima il Mero e Misto Imperio era abrogato insieme a molti altri privilegi. Dopo il 1812 i baroni si ritirarono nelle grandi città siciliane, lasciando i feudi in affitto tramite un contratto a gabella a guardie, che divenivano i gabellotti. I gabellotti a loro volta lasciarono in affitto piccoli pezzi di terra a poveri contadini (chiamati coloni o borgesi). Inoltre i gabellotti assoldarono ladri e banditi senza scrupoli e li fecero entrare nelle Compagnie d'Armi per far da guardia ai terreni. Queste Compagnie erano comandate da un capitano, che si impegnava a difendere il feudo dietro grossi compensi.
I campieri invece andavano in giro a cavallo armati di fucile e compivano qualunque sopruso contro i contadini e i pastori (chiamati anche pecorai). In quegli anni nei feudi si diffuse l'abigeato ai danni dei borgesi e con la complicità dei gabellotti.
Dopo l'unità d'Italia, la Sicilia era ancora divisa in feudi. Il governo di Giovanni Giolitti tentò di abbattere definitivamente il sistema feudale e sconfiggere il diffuso analfabetismo dell'isola con una serie di riforme, abbandonate a seguito delle pressioni della mafia e del Partito conservatore dei Cappeddi, di cui facevano parte tutti i baroni e gli aristocratici siciliani.