La Guerra Sociale è la più grande e sanguinosa guerra mai combattuta sul suolo italiano prima dell’avvento delle armi da fuoco. Secondo alcune stime, provocò circa la metà delle vittime della Grande Guerra (300'000). E’ la guerra da cui nasce lo Stato romano inteso come organizzazione statale di tutta la penisola italiana; quella in cui, per la prima volta, un esercito scende in campo in nome dell’idea di Italia. Al termine di questa guerra, gli attuali italiani si troveranno su un terreno di almeno teorica indipendenza ed eguaglianza. Ad ogni effetto, l’atto di nascita della nostra nazione.

Sia dal punto di vista militare che da quello politico, la guerra si concluse con una sostanziale sconfitta di Roma, della sua classe dirigente, della sua politica istituzionale. Dopo due anni di tremende batoste, l’orgogliosa città-stato dei patrizi si trasformò, volente o nolente, nella capitale di un’organizzazione ai cui vertici potevano ascendere cittadini di ogni parte d’Italia: dall’arpinate Cicerone, fino all’etrusco Mecenate, fino all’umbro-sabino imperatore Vespasiano.

Gli storici latini furono molto abili nel trasformare in sofferta vittoria questa sostanziale sconfitta. Eppure, che di sconfitta si sia trattato lo rivela un episodio emblematico: neanche il feroce tiranno Silla, che pure sterminerà i Sanniti, rei di essersi schierati qualche anno dopo a fianco del partito democratico nella guerra civile, avrà il coraggio di rimettere in discussione i diritti acquisiti dagli italiani. Cittadini romani saranno diventati e cittadini romani resteranno.

Secondo la ricostruzione del grande storico canadese E.T. Salmon, esposta nel suo celebre volume sui Sanniti, l’esito di questa guerra fu deciso, in ultima analisi, proprio dagli Umbri. I quali, nel momento decisivo del conflitto, scesero in campo a fianco degli insorti italici, convincendo i Romani a cedere ed a concedere ad essi la cittadinanza romana, con parità di diritti.

 

LE PREMESSE

Fino all’80 a.C., l’Italia non era uno Stato. Il vero e proprio dominio della città-stato di Roma (l’ager romanus) si estendeva su circa un quarto della penisola italiana. La cittadinanza romana era appannaggio, al di fuori dell’Urbe, delle città latine e delle colonie romane, nonché della maggior parte delle aristocrazie locali, soprattutto umbre, etrusche e campane.

Il resto del paese era organizzato in due modi: per città – stato (Umbri, Etruschi, Magna Grecia) o per tribù (Marsi, Sanniti, Peligni, Apuli, etc.). L’organizzazione tribale era tipica dei popoli che ancora non avevano adottato un’economia schiavistica, o che l’avevano fatto ancora in parte. Erano ancora maggioritarie forme collettive di utilizzazione della terra, era molto presente la piccola proprietà contadina, e, proprio per questo, dalle zone ancora tribali proveniva la maggior parte dei soldati di Roma. Lo schiavismo diffuso, infatti, portava generalmente alla proletarizzazione ed all’immiserimento dei contadini, i quali non potevano più equipaggiarsi per andare in guerra.

Città e tribù erano in ogni caso legate a Roma da trattati di alleanza, spesso stipulati solo verbalmente, che non prevedevano il versamento di tributi in denaro (Roma avrà una rozza moneta solo a partire dalle guerre annibaliche, alla fine del III secolo a.C.), spesso anche vantaggiosi, in casi limite persino totalmente paritari. L’Urbe pretendeva dai suoi alleati solo due cose: regimi aristocratici che tenessero il popolo al loro posto e, soprattutto, la fornitura di ingenti quantitativi di truppe e mezzi. Truppe e mezzi che spettava solo all’Urbe utilizzare, in quanto gli alleati (socii) cedevano ad essa ogni potere in materia di politica estera e di difesa.

A questo pagamento di tasse in carne da cannone non corrispondeva una parità di diritti. Roma si ingeriva spesso nella vita delle comunità locali; nel 193 a.C. il Senato vietò i popolarissimi culti di Dioniso con una delibera che violava esplicitamente la sovranità nazionale degli altri Stati della penisola; i magistrati romani in visita ispettiva trattavano ignobilmente i magistrati delle città in cui si trovavano a passare; le truppe fornite dagli alleati venivano schierate nei luoghi e nelle posizioni più rischiose, e si calcola che avessero almeno il doppio della media dei morti registrati fra i militari romani. Per tacere dei frequentissimi, generalizzati episodi di nonnismo. Chi si opponeva era semplicemente massacrato.

Questo andazzo continuò per secoli, in forme sempre più accentuate. C’è da dire che i popoli ad organizzazione tribale, meno assimilati ai Romani, venivano trattati molto peggio degli altri, mentre i nostri antenati Umbri e le città magno-greche godevano generalmente di molta maggiore considerazione e di un miglior trattamento.

Sotto la cenere della quotidiana disperazione delle classi subalterne italiche covava quindi il malcontento. Il grave errore dei romani fu di comportarsi con tanta arroganza e disprezzo, da estendere quest’odio anche a consistenti segmenti delle classi aristocratiche.

Negli ultimi decenni del II secolo a.C., il partito popolare romano cercò di combattere il latifondismo e di difendere la piccola proprietà agricola, in crisi, ridistribuendo ampie fette dell’ager romanus.

Cos’era l’ager romanus? Per farla semplice, ricordiamo come Roma fosse, fino alla fine del VI secolo a.C., ad ogni effetto una città etrusca. Gli etruschi, popolo culturalmente legato all’Oriente, sulle orme delle istituzioni della civiltà egizia, non concepivano la proprietà privata della terra (almeno in teoria). La terra era dello Stato, ed i privati non potevano possederne più di una quantità limitata, se non in usufrutto. In teoria, pertanto, lo Stato aveva pieno diritto di espropriare senza indennizzo la terra a chi ne era semplice detentore, ridistribuendola fra uno o più cittadini. I popolari inizialmente tentano di togliere la terra ai patrizi romani. Il tentativo finisce male, soprattutto per molti loro capi, che finiscono generalmente ammazzati. Così, hanno un’idea migliore: concentrarsi sull’ager romanus detenuto non da cittadini romani, ma, spesso abusivamente, dalle aristocrazie italiche, senza diritti in quanto spesso senza cittadinanza romana.

A questo punto, anche gli aristocratici sono stufi dei Romani; ma hanno un’idea culturalmente innovativa, vincente. Anziché ribellarsi contro Roma, si ribellano per diventare cittadini romani di pieno diritto, in modo tale da poter votare le leggi di Roma e da potersi difendere nei tribunali romani.

Nel 91 a.C. Piceni, Marsi, Vestini, Peligni, Marrucini, Frentani, Irpini, Pompeiani, Venusini, Japigi, Lucani e Sanniti si uniscono in una formidabile alleanza politica, dandosi istituzioni comuni, alternative rispetto a quelle romane, e chiedendo a gran voce la cittadinanza romana. In particolare, i Marsi, i più vicini a Roma, marciano pacificamente sulla capitale per presentare questa loro richiesta. Con incredibile cecità politica, patrizi e plebei romani rispondono all’unisono picche.
I tempi erano maturi per una rivolta generalizzata degli alleati italici contro Roma, la lega che era stata costituita fra gli alleati a scopi politici si tramutò in una organizzazione militare.

 

LA GUERRA

L'episodio che scatenò la guerra sociale accadde ad Ascoli Piceno nel 91 a.C. Il pretore Caio Servilio, venuto a sapere che Ascoli scambiava ostaggi con le città circostanti, si recò sul luogo con un piccolo reparto. Riuniti gli abitanti in un teatro, infiammò gli ascolani con un discorso dai toni ostili e minacciosi. Il clima era già teso, il discorso fu la goccia che fece traboccare il vaso: la platea assalì Servilio uccidendolo assieme al suo legato, successivamente, tutti i cittadini romani che si trovavano in città furono massacrati.

La rivolta di Ascoli era il segnale che gli altri italici stavano aspettando. Si formarono due gruppi di rivolta:

  1. Il fronte settentrionale, capitanata da Marsi e Piceni, oltre ad altre tribù satelliti quali i Peligni e i Vestini. Il capo de Marsi era Quinto Pompedio Silone, già amico di Druso, quello dei Piceni Caio Iudacilio. Silone e i Marsi, durante il conflitto, capitanarono le operazioni militari di questo gruppo.
  2. Il fronte meridionale, capitanata da Sanniti e Lucani, i cui capi erano rispettivamente Caio Papio Mutilo e Ponzio Telesino. Papio Mutilo e l'agguerrita tribù sannitica furono al comando delle operazioni militari nel sud.

Con Roma rimasero L'Umbria e L'Etruria, oltre alle colonie greche del sud Napoli, Nola, Reggio e Taranto e le altre. Era una rivolta piuttosto pericolosa, all'interno della penisola, nel cuore stesso della società italico-romana. Inoltre i capi della rivolta, compresi gli uomini che avevano a disposizione, non erano certamente degli incapaci, essendo stati addestrati alla guerra proprio dai romani che se ne erano serviti in molte battaglie, a partire dalla riforma di Mario.

I rivoltosi potevano disporre di una forza di circa 100.000 uomini, erano addestrati, come si è già detto, equipaggiati con le stesse armi dei romani e forse maggiormente dediti alla causa per la quale combattevano rispetto ai nemici. I romani, per contro, mettevano sul piatto della bilancia lo stesso numero di uomini e potevano contare sull'appoggio delle proprie colonie, situate in posizioni strategiche su tutto il territorio italico. Umbri, Etruschi e Magna Grecia, per ora, restavano con Roma.

Infine, la lega dei rivoltosi organizzò uno stato parallelo, con proprie leggi, proprie istituzioni, propri consoli e propri senatori, perfino una propria moneta (nella quale un toro, simbolo dei sanniti, prendeva a cornate la lupa capitolina). La capitale dello stato italico fu Corfinio, nella regione dei Peligni, al centro della rivolta. Fu significamente ribattezzata "Italica".

Prima di attaccare, i rivoltosi fecero un ultimo tentativo di sistemare le cose inviando una delegazione a Roma nella quale si chiedeva la concessione della cittadinanza in cambio della pace. Il senato rifiutò. A ribadire la scelta, Quinto Vario, un tribuno della plebe sostenuto dagli equites, costituì una commissione incaricata di processare i traditori della patria. Druso fu accusato di aver innescato la rivolta degli italici, molti dei suoi sostenitori furono condannati.

La guerra ebbe inizio nel 91 a.C., lo stesso anno della sollevazione di Ascoli. I primi anni furono contraddistinti, per i romani, da numerosi insuccessi. Gli italici attaccarono dapprima le fortezze, dandosi all'azione di guerriglia, in un secondo momento cominciarono le battaglie campali vere e proprie.

Gli italici attaccarono dapprima le fortezze, dandosi all'azione di guerriglia, in un secondo momento cominciarono le battaglie campali vere e proprie.
Nel sud l'esercito romano era capitanato dal console Lucio Giulio Cesare (uno dei legati era Silla). Il tentativo di attaccare i sanniti portò ad una rovinosa sconfitta. I Romani persero l'importante citta di Venafro, sul confine sannitico, oltre ad arretrare in Campania, dove le città di Nola, Salerno, Pompei, Ercolano e Stabia passarono al nemico. Anche Isernia fu costretta alla resa dopo un assedio.

Al nord operavano per i romani il console Publio Rutilio Lupo, che aveva tra i suoi legati Caio Mario, ritornato dall'Oriente. Nel 90 a.C. i Marsi attaccarono l'esercito romano a sorpresa, presso il fiume Tolero, nel territorio degli Equi. Il console morì assieme a 8.000 soldati, solo Mario riuscì ad impedire la completa catastrofe continuando la resistenza sul quel fronte.

Lo sfavorevole volgere degli eventi ebbe come effetto un tentennamento degli alleati Umbri ed Etruschi: alcune comunità passarono con i rivoltosi, altre si mostravano indecise.

A quel punto, capendo che l’occasione non si sarebbe presentata mai più, Umbri ed Etruschi si unirono alla rivolta. Un legato romano, Plozio, si scontrò con gli Umbri a Otricoli, spiacevolmente vicino a Roma. Nulla sappiamo dagli storici romani sull’ esito dello scontro. Fatto sta che, subito dopo, alla fine del 90 a.C. il console Giulio Cesare (padre) decise di varare una legge che permetteva a quelle comunità che non erano ancora passate col nemico di acquisire la cittadinanza romana (lex Julia). Questa legge riuscì ad arrestare la rivolta in Umbria ed Etruria, dove le città ancora indecise ritornarono saldamente dalla parte di Roma.

Un' altra legge successiva diede la spallata decisiva. All'inizio del 89 a.C. I tribuni Marco Pluzio Silvano e Caio Papirio Carbone vararono una legge che permetteva di estendere la cittadinanza romana a tutte le comunità che entro due mesi avessero manifestato a un pretore il desiderio di usufruire di tale diritto. La legge seminò grande discordia tra i ribelli italici, incrinandone l'iniziale compattezza d'intenti.

C'è da aggiungere che i nuovi cittadini non furono uniti alle tradizionali 35 tribù latine, ma furono divise in altre 8 tribù aggiuntive, piuttosto poche in rapporto al numero di nuovi cittadini, che pur essendo superiori di numero ai romani, avevano così minor rappresentanza nelle assemblee, ma comunque i primi passi in questa direzione erano stati fatti, e le prime conseguenze politiche non tardarono a ripercuotersi sulla compattezza dei nemici.

Sempre nell'89 infine, il console Strabone propose una legge speciale (lex Pompeia) che permetteva ai membri delle colonie della Gallia Cisalpina di acquisire la cittadinanza, oltre a quelle comunità latine al di là del Po che fossero rientrate nell'orbita romana.

Una volta pacificate Umbria ed Etruria, tra manovre politiche e battaglie minori, i romani sconfissero pesantemente i Marsi, che nel frattempo erano accorsi in aiuto degli Etruschi. Strabone e il suo esercito uccisero 15.000 avversari, spegnendo di fatto ogni velleità della tribù ribelle (89 a.C.). Le operazioni si concentrarono quindi su Ascoli. La città venne assediata e vide la vittoria in battaglia dell'esercito romano, che però non potè subito entrare in città, occupata prontamente da Iudacilio, che ne era prontamente accorso in aiuto. L'assedio continuò ancora per qualche mese, finché i notabili della città decisero per la resa, con la disapprovazione di Iudacilio, che dopo averli condannati a morte, decise di suicidarsi col veleno. I Romani entrarono nella città, uccisero i notabili e deportarono la popolazione. Ascoli era caduta, e con lei Italica, che ritornò ad essere Corfinio (89 a.C.).

Tutto il fronte nord della ribellione crollò. Oltre ai Marsi e ai Piceni, si arresero anche i Vestini e i Peligni.

All'inizio del'88 a.C. la capitale dei rivoltosi si era spostata ad Isernia, i Sanniti capeggiavano la rivolta.

Silla operava in Campania, mostrando oltre alla sua abilità militare anche la sua spietata crudeltà. Mentre un altro contingente romano aveva conquistato la Puglia, Silla invase la Campania meridionale riconquistando le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Penetrò poi nel Sannio fino a raggiungerne la città più importante, Boviano, che costrinse alla resa.

A questo punto la rivolta si estendeva solo ad alcune regioni della Campania, della Lucania, del Sannio e del Bruzio (Calabria meridionale), oltre che a Nola. Il movimento meridionale, che pur continuò a combattere fino all'82 a.C. si era ormai molto indebolito. Fu per questo che cercò l'appoggio di Mitriade, re del Ponto, che nel frattempo si preparava a combattere i romani per motivi personali, e che non fece in tempo comunque a portare aiuto ai rivoltosi.

Proprio Silla, che nel frattempo aveva iniziato l'assedio di Nola, fu costretto a tornare a Roma per far fronte alle nuove minaccie provenienti dall'Oriente. Pur non considerandosi definitivamente sedata, la rivolta interna era ormai decisamente ridimensionata.

Dopo lunghe e complesse vicende, alla fine, nell’82 a.C. i Romani dovettero cedere: concessero l’amnistia generale a tutti i partecipanti alla rivolta, gli italici furono distribuiti equamente e proporzionalmente fra le varie tribù. C’è da dire, comunque, che per votare di quei tempi occorreva andare personalmente fino a Roma, cosa che fra gli abitanti delle povere contrade d’Appennino, ben pochi potevano permettersi.

La soluzione che Roma diede alla guerra sociale fu politica e non militare: le leges lulia, Calpurnia e la stessa Plautia¬Papiria sono frutto della mentalità giuridica romana, che supera l’elemento etnico, cioè la consanguineitas, ed estende il suo diritto di cittadinanza anche a popoli etnicamente differenziati, come si verifica nel caso degli Etruschi e dei Greci dell’Italia meridionale. I Romani con la civitas offrono l’integrazione in uno stato che supera i confini della urbs e prescinde dal carattere etnico, che costituisce, invece, il principio vitale della unità italica; il diritto di cittadinanza romana è estensibile solo come partecipazione al nomen Romanum e ad una unità basata sul mos, cioè sulla comunanza di ideologia, mentalità, costumi.