Il Regno d'Italia fu lo Stato italiano nato il 17 marzo 1861 dopo la guerra risorgimentale (seconda guerra d'indipendenza) combattuta dal Regno di Sardegna per conseguire l'unificazione nazionale italiana.

Il completamento del territorio nazionale avvenne al termine della prima guerra mondiale, considerata come la quarta guerra d'indipendenza italiana, il 4 novembre 1918 (giorno della diramazione del Bollettino della Vittoria che annunciava che l'Impero austro-ungarico si arrendeva all'Italia) in base all'armistizio firmato a Villa Giusti, nei pressi di Padova. Con il successivo trattato di Saint-Germain-en-Laye, nel 1919, l'Italia completò l'unità nazionale con l'annessione di Trento, Trieste, l'Istria e parte della Dalmazia.

Dal 1861 al 1946 fu una monarchia costituzionale basata sullo Statuto Albertino, concesso nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia ai suoi sudditi del Regno di Sardegna, prima di abdicare l'anno successivo. Al vertice dello Stato vi era il re, il quale riassumeva in sé i tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario seppur esercitati non in maniera assoluta. Tale forma di governo fu avversata dalle frange repubblicane (oltreché internazionaliste e anarchiche) e si concretizzò soprattutto in due note vicende: la fucilazione di Pietro Barsanti (considerato il primo martire della Repubblica Italiana) e l'attentato di Giovanni Passannante, di fede anarchica.

Solo nel 1946 l'Italia divenne una repubblica e nello stesso anno fu dotata di un'Assemblea Costituente al fine di redigere una costituzione avente valore di legge suprema dello Stato repubblicano, onde sostituire lo Statuto Albertino sino ad allora vigente. Nel periodo del Regno d'Italia fu a più riprese intrapresa la costituzione di possedimenti coloniali che compresero domini in Africa orientale, in Libia e nel Mediterraneo, e una concessione a Tientsin, in Cina. Il Regno d'Italia prese parte alla terza guerra d'indipendenza, a diverse guerre coloniali e a due conflitti mondiali.

La trasformazione nell'attuale assetto istituzionale avvenne in seguito a un referendum tenutosi il 2 e 3 giugno, che sancì la nascita della Repubblica Italiana, che il 1º gennaio 1948 si dotò di nuova Costituzione.

Storia

Nel 1849 tramontò il progetto di confederazione tra gli Stati della penisola (come volevano moltissime personalità di spicco della politica italiana dell'epoca, dal piemontese Massimo d'Azeglio al toscano Bettino Ricasoli e al federalista lombardo Carlo Cattaneo) per il ritiro delle truppe pontificie e successivamente borboniche, nel sostegno a Carlo Alberto durante la prima guerra d'indipendenza. Successivamente il Regno d'Italia nacque nel 1861, dal Regno di Sardegna, privato (nel 1860) della Contea di Nizza e del Ducato di Savoia (richiesti dalla Francia di Napoleone III e ceduti in cambio dell'aiuto militare ricevuto contro gli austriaci), dopo l'annessione plebiscitaria dei territori della Lombardia, delle Province Unite del Centro Italia, delle Marche, dell'Umbria e di quelli che costituivano il Regno delle due Sicilie; annessione resa possibile dalla vittoria franco-piemontese nella Seconda guerra d'indipendenza italiana (1859) e l'esito positivo della spedizione garibaldina contro il Regno delle due Sicilie nel meridione (1860). Il Regno d'Italia fu retto dalla sua nascita alla sua caduta, nel 1946, dalla dinastia reale dei Savoia.

Il presidente del Consiglio del Regno di Sardegna Cavour, nei suoi progetti discussi con Napoleone III a Plombières nel 1858, prevedeva tre regni distinti per la penisola: un Regno dell'Alta Italia comprendente tutto il nord, dal Piemonte al fiume Isonzo più la Romagna pontificia sotto il dominio Sabaudo; un Regno del Centro composto da ciò che rimaneva dello Stato Pontificio, eccettuata Roma, più il Granducato di Toscana sotto l'influenza francese; e il Regno delle Due Sicilie a capo del quale Napoleone III avrebbe voluto Luciano Murat, figlio di Gioacchino Murat. Ciò si evince dalla lettera che Cavour scrisse da Baden il 24 luglio 1858 al re di Sardegna Vittorio Emanuele II. Al Papa sarebbe stato lasciato il Territorio di Roma e dintorni.

Gli Accordi di Plombières prevedevano per la realizzazione del progetto politico una guerra comune di Francia e Regno di Sardegna contro l'Impero austriaco. Scoppiata la seconda guerra di indipendenza, tuttavia, il progetto naufragò a causa della decisione unilaterale di Napoleone III di uscire dal conflitto (armistizio di Villafranca), consentendo così al Regno di Sardegna di acquisire la sola Lombardia, e non l'intero regno lombardo-veneto come da accordi. Dopo l'armistizio il piano di una penisola italiana suddivisa in tre regni fallì sia a causa delle rivolte scoppiate in Emilia, Romagna e Toscana, dell'opposizione di Garibaldi, dei mazziniani, e anche di quella re Francesco II delle Due Sicilie, che rifiutò nel 1859 una proposta del Regno di Sardegna di alleanza per un comune attacco allo Stato Pontificio, poiché non voleva acquisire territori appartenenti al papa.

Il periodo del regno di Vittorio Emanuele II di Savoia che va dal 1859 al 1861 viene anche indicato come Vittorio Emanuele II Re Eletto. Infatti, nel 1860 il Ducato di Parma e Piacenza, il Ducato di Modena e Reggio, il Granducato di Toscana e la Romagna pontificia votarono dei plebisciti per l'unione con il Regno. Nello stesso anno con la vittoria della spedizione dei Mille vengono annessi i territori del Regno delle Due Sicilie, e con l'intervento piemontese le Marche, l'Umbria, Benevento e Pontecorvo, tolti allo Stato Pontificio. Tutti questi territori saranno annessi ufficialmente al Regno tramite plebisciti, ratificati dal parlamento, e pubblicati sulla gazzetta ufficiale del Regno n.306 del 26 dicembre 1860.

Il 21 febbraio 1861 la nuova Camera dei deputati approvò un disegno di legge con il quale Vittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d'Italia, assumendone il titolo per sé e per i suoi successori. La legge 17 marzo 1861 n. 4671, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia del 17 marzo 1861 (formalmente però una legge del Regno di Sardegna) sancì l'assunzione da parte del monarca sabaudo del titolo di re. Il Regno d'Italia alla sua nascita risultò suddiviso in 11 compartimenti territoriali, 59 province, 193 circondari e 7720 comuni.

 

Regno di Vittorio Emanuele II (1861-78)

L'unità ed il brigantaggio

A seguito dei plebisciti del 1859 e 1860, la nascita del Regno d'Italia fu ufficializzata il 17 marzo 1861 allorché Vittorio Emanuele II, già Re di Sardegna, assumeva per sé e per i suoi discendenti il titolo di "Re d'Italia"; dal punto di vista istituzionale e giuridico assunse la struttura e le norme del Regno di Sardegna, esso fu infatti de jure una monarchia costituzionale, secondo la lettera dello Statuto Albertino del 1848. Il Re nominava il governo, che era responsabile di fronte al sovrano e non al parlamento; il re manteneva inoltre prerogative in politica estera e, per consuetudine, sceglieva i ministri militari (Guerra e Marina).

Nei vent'anni antecedenti allo scoppio della prima guerra mondiale, il Regno d'Italia vide un graduale ma costante cambiamento verso una monarchia de facto parlamentare, in quanto i governi di quegli anni chiedevano la fiducia alla Camera dei Deputati, e non più al Senato del Regno, infatti si può dire che il Senato avesse perso quasi ogni sua funzione, dall'approvazione delle leggi fino alla fiducia al governo. In quegli anni l'Italia si trasformò quasi completamente in una monarchia parlamentare come il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Il diritto di voto era attribuito, secondo la legge elettorale piemontese del 1848, in base al censo; in questo modo gli aventi diritto al voto costituivano appena il 2% della popolazione. Le basi del nuovo regime erano quindi estremamente ristrette, conferendogli una grande fragilità. Tornando al 1861 il Regno d'Italia si configurava come una delle maggiori nazioni d'Europa, almeno a livello di popolazione e di superficie (22 milioni su una superficie di 259 320 km²), ma non poteva considerarsi una grande potenza, a causa soprattutto della sua debolezza economica e politica. Le differenze economiche, sociali e culturali ereditate dal passato ostacolavano la costruzione di uno Stato unitario.

Accanto ad aree tradizionalmente industrializzate coinvolte in processi di rapida modernizzazione (soprattutto le grandi città e le ex capitali), esistevano situazioni statiche ed arcaiche riguardanti soprattutto l'estesissimo mondo agricolo e rurale italiano. L'estraneità delle masse popolari al regno unitario si palesò in una serie di sommosse, rivolte, fino a una diffusa guerriglia contro il governo unitario, il cosiddetto brigantaggio, che interessò principalmente le province meridionali (1861-1865), impegnando gran parte del neonato esercito in una repressione spietata, tanto da venire considerata da molti una vera e propria guerra civile. Quest'ultimo avvenimento in particolare fu uno dei primi e più tragici aspetti della cosiddetta questione meridionale. Ulteriore elemento di fragilità era costituito dall'ostilità della Chiesa cattolica e del clero nei confronti del nuovo Stato liberale, ostilità alimentata dalla Legge Rattazzi, che si sarebbe rafforzata dopo il 1870 con la presa di Roma (questione romana).

I governi della Destra storica

A far fronte a queste difficoltà si trovò la Destra storica, raggruppamento erede di Cavour, espressione della borghesia liberal-moderata. I suoi esponenti erano soprattutto grandi proprietari terrieri e industriali, nonché militari (Ricasoli, Sella, Minghetti, Spaventa, Lanza, La Marmora, Visconti Venosta).

Gli uomini della Destra affrontarono i problemi del Paese con energica durezza: estesero a tutta la Penisola gli ordinamenti legislativi piemontesi (processo chiamato "Piemontesizzazione"); adottarono un sistema fortemente accentrato, accantonando i progetti di autonomie locali (Minghetti), se non di federalismo; applicarono un'onerosa tassazione sui beni di consumo, come la tassa sul macinato, che gravava soprattutto sui ceti meno abbienti, per colmare l'ingentissimo disavanzo del bilancio. In politica estera, gli uomini della Destra storica vennero assorbiti dai problemi del completamento dell'Unità; il Veneto venne annesso al Regno d'Italia in seguito alla terza guerra di indipendenza.

Per quanto riguarda Roma, la Destra cercò di risolvere la questione con il metodo diplomatico, ma si dovette scontrare con l'opposizione del Papa, di Napoleone III e della Sinistra, che tentò di percorrere la via insurrezionale (tentativi di Garibaldi, 1862 e 1867). Nel 1864 venne stipulata con la Francia la Convenzione di settembre, che imponeva all'Italia il trasferimento della capitale da Torino ad un'altra città; la scelta cadde su Firenze, suscitando l'opposizione dei Torinesi. Nel 1870, con la breccia di Porta Pia, Roma venne conquistata da un gruppo di bersaglieri e divenne capitale d'Italia l'anno seguente. Il Papa, ritenendosi aggredito, si proclamò prigioniero e lanciò virulenti attacchi allo Stato italiano, istigando per reazione un altrettanto virulenta campagna laicista e anticlericale da parte della Sinistra. Il governo regolò unilateralmente i rapporti Stato-Chiesa con la legge delle guarentigie; il Papa respinse la legge e, disconoscendo la situazione di fatto, proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica del Regno, secondo la formula «né eletti, né elettori» (non expedit). Dopo aver ottenuto una maggioranza schiacciante nelle elezioni del 1861, la Destra vide ridursi progressivamente i suoi consensi, pur mantenendo la maggioranza. Nel 1876 venne conseguito il pareggio del bilancio dello Stato, ma gravi problemi rimanevano sul tappeto: il divario fra popolazione ed istituzioni, l'arretratezza economica e sociale, gli squilibri territoriali. Un voto parlamentare portò alla caduta del governo di Marco Minghetti, e al conferimento della carica di primo ministro ad Agostino Depretis, guida della Sinistra storica. Finiva un'epoca: solo pochi mesi dopo, Vittorio Emanuele II morì, e sul trono gli successe Umberto I.

 

Regno di Umberto I (1878-1900)

I governi della Sinistra storica

Depretis formò un governo che, oltre all'appoggio della Sinistra, schieramento di cui faceva parte, si reggeva anche sull'appoggio di una parte della Destra, quella che aveva contribuito alla caduta del governo Minghetti. Nella sua azione di governo, Depretis cercò sempre ampie convergenze su singoli temi con settori dell'opposizione, dando vita al fenomeno del trasformismo.

Nel 1876, la Sinistra si presentò alle elezioni con un programma protezionista. Si faceva portavoce delle rivendicazioni contro la Destra storica. Con la crisi economica in Europa (1873) crebbe la miseria dei braccianti; questo provocò i primi scioperi agricoli. Il protezionismo si tradusse nell'intervento dello Stato, aggiunto ai dazi doganali, che limitavano le importazioni e favorivano il commercio interno. L'interesse del governo si rivolse al rafforzamento dell'industria: grazie agli incentivi statali e al protezionismo nacquero le Acciaierie di Terni e le Officine Meccaniche Breda nel 1884; si svilupparono le infrastrutture; la produzione industriale aumentò.

L'ossessione del governo italiano era di portare il paese su una posizione adeguata a livello internazionale; per questo motivo venne acquistata nel 1882 la Baia di Assab dalla Compagnia Rubattino, da cui partì in seguito l'avventura coloniale nell'Africa orientale. La Sinistra storica cercò di migliorare le condizioni di vita della popolazione: con la legge Coppino del 1877 fu ribadita l'istruzione obbligatoria e con la riforma della legge elettorale del 1882 il diritto di voto fu esteso a chi avesse frequentato i primi due anni di scuola o pagasse almeno 20 lire di tasse annue. Depretis avviò anche una serie di inchieste sulle condizioni di vita dei contadini nella penisola, la più famosa delle quali fu l'inchiesta Jacini. Tali iniziative rivelarono una grande miseria e pessime condizioni igieniche; l'infanzia era spesso vittima della difterite mentre gli adulti soffrivano di pellagra per malnutrizione. Tuttavia le finanze dello Stato venivano dissipate dalla politica coloniale e dai finanziamenti industriali: non furono realizzate nuove strutture scolastiche né bonifiche o migliorie agricole. Negli ultimi anni dell'Ottocento il Regno fu afflitto da un'emigrazione di massa, nel corso della quale milioni di contadini si trasferirono nelle Americhe e in altri stati europei. In quel periodo, però, l'Italia fece anche un decisivo passo in avanti, avvicinandosi ai paesi più moderni. Ebbe inizio un ciclo di rapida industrializzazione; si affermò il movimento operaio; l'economia progredì, favorita dall'adozione di misure protezionistiche e dai finanziamenti concessi dallo Stato e da alcune importanti banche (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano). L'industrializzazione ebbe i suoi punti di forza nella siderurgia (gli operai del settore tra il 1902 e il 1914 aumentarono da 15'000 a 50'000) e nella nuova industria idroelettrica. Quest'ultima sembrava risolvere una delle debolezze dell'Italia, paese privo di materie prime essenziali come il carbone e il ferro. Utilizzando l'acqua dei laghi alpini e dei fiumi fu possibile ottenere energia senza dipendere dall'estero per l'acquisto del carbone: la produzione di energia idroelettrica, tra il 1900 e il 1914, salì da 100 a 4'000 milioni di kWh.

L'industria tessile mantenne una posizione di rilievo con prodotti venduti sia sul mercato interno sia su quello internazionale. Anche l'industria meccanica cominciò ad affermarsi nel settore dei trasporti (auto, treni) e delle macchine utensili. Ciononostante l'economia conservava forti squilibri tra il Nord del paese, industrializzato e moderno, e il Sud, arretrato e prevalentemente agricolo. La modernizzazione si manifestò anche nelle forme della vita politica e del conflitto sociale. Nel 1892 fu fondato a Genova da Filippo Turati il Partito Socialista Italiano, principale referente del movimento operaio fino all'avvento del fascismo.

Una grande esplosione di protesta popolare si registrò in Sicilia dopo il 1890 e vide migliaia di contadini, spinti dalla crisi che impoveriva l'economia dell'isola, battersi per una riforma agraria. Il governo, presieduto da Francesco Crispi, decretò l'occupazione militare della Sicilia e la condanna dei capi sindacali. Con Francesco Crispi, appunto, che assunse la carica di Primo Ministro dopo la scomparsa di Depretis nel 1887, la Sinistra prese una svolta autoritaria, nel tentativo di consolidare i possedimenti coloniali e di estenderli all'intera Etiopia; di sviluppare il mercato interno favorendo l'esportazione verso nuovi mercati. La realtà era ben diversa, però, dal progetto di Crispi. Soprattutto una forte collusione tra potere economico e potere politico (si ricordi anche lo Scandalo della Banca Romana) paralizzava lo sviluppo del Paese e soprattutto del Mezzogiorno. Alcuni economisti ritengono che l'economia sia stata in questo periodo "un processo artificioso" prodotto dallo statalismo economico e non dalla libera iniziativa privata. Il governo della Sinistra storica si concluse nel 1896, con le dimissioni di Crispi, pochi mesi dopo la schiacciante sconfitta italiana ad Adua, dove si contarono circa cinquemila morti. L'iniziativa coloniale italiana non aveva cambiato la posizione del paese sullo scacchiere internazionale.

La politica estera e l'alleanza con gli Imperi centrali

Nel 1878 l'equilibrio europeo concordato a Vienna rischiò di essere sconvolto dagli esiti della guerra russo-turca e dai successivi accordi di pace che fecero crescere la sfera di influenza russa nella penisola balcanica. Il cancelliere Bismarck, preoccupato di questo, convocò d'urgenza una conferenza a Berlino alla quale partecipò come rappresentante del Regno d'Italia, il Ministro degli Esteri Luigi Corti. Da questo congresso, l'Impero russo vide praticamente annullati i vantaggi ottenuti con il trattato, e all'Austria-Ungheria fu assegnata la Bosnia-Erzegovina, all'Inghilterra l'isola di Cipro e alla Francia fu assicurato l'appoggio per l'occupazione della Tunisia. L'Italia non ottenne nessun vantaggio di nessun genere e la delusione che ne susseguì fu grande; ma ancora più gravi furono le conseguenze che ne derivarono, prima di tutte la conquista della Tunisia nel 1881 da parte della Francia.

Ora la vicinanza alla Sicilia della Repubblica transalpina rappresentava la più grave minaccia per il territorio italiano e principale avversario per gli interessi del Regno. Nei confronti della Francia si venne a creare un sentimento di timore che fece passare in secondo piano il vecchio rancore verso Vienna, nonostante questa occupasse ancora terre italiane. Così il Regno andò a cercare un suo posto tra le potenze europee dalle quali sarebbe risultato più forte, tanto più forti sarebbero stati i suoi alleati; guardò così alla Germania, alleata all'Austria-Ungheria. Il 20 maggio 1882 si concluse il primo trattato della Triplice Alleanza, un accordo di natura difensiva di valore quinquennale che fu rinnovato una prima volta il 20 febbraio 1887, anche se furono siglati due distinti accordi bilaterali Italia-Austria e Italia-Germania che stabilivano l'impegno dei firmatari a mantenere lo "status quo" nei Balcani. L'ultimo rinnovo del trattato avvenne il 5 dicembre 1912, a seguito di altri due rinnovi precedenti.

Crisi di fine secolo

Negli ultimi anni del secolo a una nuova ondata di scioperi il governo rispose con una dura repressione, il cui culmine si ebbe per i moti di Milano del maggio del 1898, quando il generale Bava Beccaris fece aprire il fuoco sulla folla che reclamava pane e lavoro. Con la proclamazione dello stato d'assedio, la polizia arrestò i dirigenti socialisti, chiuse i giornali di opposizione e le sedi dei partiti operai. La situazione italiana si trovò allora a un passaggio difficile. C'era il rischio che prevalesse un governo reazionario. L'attentato in cui morì il re Umberto I, compiuto a Monza nel 1900 dall'anarchico Gaetano Bresci, rese più tesa la situazione. D'altra parte diversi uomini della borghesia industriale e i partiti di sinistra (socialisti, repubblicani e radicali) puntavano invece a una svolta democratica. Questa si presentò nel 1901, quando il nuovo re Vittorio Emanuele III affidò la carica di primo ministro a Giuseppe Zanardelli, un liberale che si era pronunciato contro la repressione.

Economia italiana del XIX secolo

L'economia italiana del XIX secolo risentiva dell'unità nazionale conquistata da troppo poco tempo, delle contraddizioni politico-economiche delle diverse regioni unificate, delle forti disparità socioeconomiche fra il settentrione e il Meridione del paese, esemplificate poi nella cosiddetta questione meridionale, oltre che del mutato assetto geopolitico dell'Europa dopo il 1870. Oltre ai collegamenti interni fra le varie regioni, ormai in via di ultimazione, l'Italia era collegata con la Francia e l'Europa Centrale. Tutto ciò consentiva lo sviluppo di un vero mercato nazionale e internazionale, anche se la stessa povertà del mercato interno rappresentava un ostacolo al suo sviluppo.

 

Regno di Vittorio Emanuele III (1900-1946)

Vittorio Emanuele III nacque a Napoli l'11 novembre 1869, figlio di Umberto I e di Margherita di Savoia. Nel 1896 sposò Elena di Montenegro e salì al trono nel 1900, quando il padre venne assassinato. Promotore di una politica riformatrice, sostenne l'azione politica di Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti. Si mostrò favorevole, nel 1911, all'invasione della Libia, preceduta da una grande campagna propagandistica.

Il periodo compreso tra il 1901 e il 1913 fu dominato dalla figura dello statista Giovanni Giolitti: la modernizzazione dello Stato liberale, insieme con le prime riforme di carattere sociale, nate in un clima di positivo rapporto tra governo e settori moderati del socialismo, ne fu il tratto caratterizzante. Importanti furono le posizioni riformistiche prevalse tra le file del partito socialista, che posero in minoranza l'ala massimalista, fautrice di uno scontro sociale e politico senza mediazioni. La svolta nel partito socialista trovò giustificazione nella linea politica tenuta da Giolitti, che si caratterizzò per un nuovo atteggiamento di neutralità governativa nei conflitti di lavoro, lasciando che fossero risolti dalle parti in causa: industriali e operai.

Ai governi presieduti da Giolitti risalgono le prime leggi speciali per lo sviluppo del Mezzogiorno, imperniate sul principio del credito agevolato alle imprese e riguardanti la Basilicata, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e Napoli: in quest'ultimo caso fu possibile ultimare rapidamente il centro siderurgico di Bagnoli. Un altro importante progetto portò alla statalizzazione delle ferrovie approvata dal Parlamento nel 1905, che metteva l'Italia al passo con gli altri paesi europei in un settore essenziale allo sviluppo. Nel 1912 una legge per finanziare le pensioni di invalidità e di vecchiaia per i lavoratori inaugurava la moderna legislazione sociale in Italia. L'età giolittiana fu contrassegnata da una forte crescita economica che fece registrare notevoli tassi di sviluppo nel settore industriale, con conseguente aumento del reddito di molti italiani. Tuttavia, gli indici altrettanto elevati dell'emigrazione all'estero (circa 8 milioni di italiani lasciarono il paese in dieci anni) confermavano i radicati squilibri tra nord e sud e tra città e campagna. L'Italia, alleata con la Germania, le cui ambizioni coloniali erano osteggiate da Gran Bretagna e Francia, trovò il pretesto per agire al di fuori dei vincoli della Triplice Alleanza (Germania, Italia, Austria-Ungheria).

Favorevoli alla campagna furono i grandi gruppi finanziari, come il Banco di Roma e la Banca Commerciale, ed esponenti della corrente nazionalista. Contrari erano i socialisti e alcuni rappresentanti del movimento democratico. Per la dichiarazione di guerra alla Turchia, avanzata il 29 settembre 1911, il Primo Ministro Giovanni Giolitti e il Ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano violarono l'articolo 5 dello Statuto Albertino, che prevedeva che le dichiarazioni di guerra dovessero venir approvate dal parlamento. I 100'000 uomini del generale Carlo Caneva occuparono Cirenaica e Tripolitania in ottobre, dichiarandole territorio italiano il 5 novembre.

Nel maggio 1912 truppe italiane agli ordini del generale Giovanni Ameglio occuparono Rodi e il Dodecaneso. La Turchia, incapace di rispondere efficacemente alle manovre italiane, accettò i termini stabiliti nella pace di Losanna (18 ottobre 1912), in cui si stabiliva che l'Italia doveva ritirare le truppe dalle isole egee, mentre la Turchia cedeva la Libia al Governo italiano. Dato che la Turchia si rifiutava di cedere la Libia, l'Italia non ritirò il contingente dal Dodecaneso, dove rimase invece per tutta la durata della prima guerra mondiale. Nel 1923 il trattato di Losanna assegnava ufficialmente il Dodecaneso e Rodi all'Italia; sarebbero rimaste sue colonie fino al 1945.

La Grande Guerra e i trattati di pace

Nel 1915, Vittorio Emanuele III si dimostrò ancora una volta favorevole all'entrata in guerra a fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia. Allo scoppio della prima guerra mondiale, si recò personalmente al quartier generale in Veneto, anche se il comando era tenuto da Luigi Cadorna, lasciando la luogotenenza del Regno allo zio Tommaso, duca di Genova. Fino al 1917 la situazione del fronte era stabile, con pochissime conquiste e decine di migliaia di vittime da entrambi i lati. Tuttavia, nell'ottobre del 1917 una forte scossa alla guerra sul fronte italiano: la disfatta di Caporetto. Per l'organizzazione politica e militare italiana fu una rivoluzione: il Comando dell'esercito venne affidato ad Armando Diaz (il "Duca della Vittoria") e il Governo presieduto da Paolo Boselli fu costretto alle dimissioni. Verrà subito sostituito da Vittorio Emanuele Orlando, che poi parteciperà alla Conferenza di Pace di Parigi, grazie al quale l'Italia ottenne il Trentino-Alto Adige, Trieste, Gorizia, l'Istria, Zara e le isole del Carnaro, di Lagosta, di Cazza e di Pelagosa.

Il regno tra le due guerre mondiali

In Italia il ritorno alla pace mise allo scoperto le fragilità del sistema economico, chiamato alla riconversione dalla produzione bellica a quella civile: debito pubblico alle stelle, inflazione e disoccupazione erano le eredità del conflitto. Nell'opinione pubblica si insinuò il mito della "vittoria mutilata" allorché alla conferenza di pace fu negata all'Italia la cessione della Dalmazia e di Fiume, in base al principio dell'autodeterminazione dei popoli. A nulla servì il gesto di rottura compiuto dai ministri plenipotenziari, Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, i quali nell'aprile del 1919 abbandonarono per protesta la conferenza di Parigi, salvo farvi ritorno poco dopo per la firma dei trattati conclusivi, nei quali venivano riconosciuti all'Italia Trento, Trieste e l'Istria. In un clima di delusione ebbero buon gioco i nazionalisti a fare sentire la loro protesta e ad applaudire l'occupazione di Fiume effettuata nel settembre del 1919 dai volontari guidati dal poeta Gabriele D'Annunzio e fiancheggiati da truppe sediziose dell'esercito.

A partire dal 1919 gli operai nelle fabbriche e i braccianti nelle campagne scesero in sciopero per rivendicare aumenti salariali e migliori condizioni di vita; ma agiva in loro anche il richiamo alla rivoluzione socialista, sull'esempio di quella in atto nella Russia di Lenin, iniziava il biennio rosso. Il movimento popolare, indirizzato dai sindacati e dal Partito socialista, mancò di una chiara linea di conduzione perché venne disorientato dalle divisioni all'interno della sinistra, in particolare dallo scontro tra massimalisti e riformisti. Raggiunse l'acme con l'occupazione delle fabbriche del Nord (1920), per poi declinare rapidamente. Intanto in quegli anni si affacciarono nuove formazioni politiche, espressione di ideologie moderne. Nel 1919 fu fondato dal sacerdote Luigi Sturzo il Partito Popolare Italiano, sotto gli auspici della Chiesa. Lo stesso anno vide venire alla luce il movimento fascista, nato per iniziativa di Benito Mussolini come forza extraparlamentare col nome di Fasci italiani di combattimento, in difesa degli ideali nazionalistici e con un radicalismo antisocialista; esso si rivolgeva soprattutto agli ex combattenti e ai ceti medi, facendo leva sullo spauracchio (non del tutto infondato) di una rivoluzione comunista. Nel 1921 a Livorno da una scissione in seno al partito socialista nacque il Partito Comunista d'Italia: Antonio Gramsci ne era il leader teorico.

Nelle istituzioni si riflettevano le tensioni presenti nella società. Nel giugno del 1920 fece ritorno alla presidenza del consiglio Giolitti, che per esperienza e prestigio si pensava potesse comporre i contrasti politici. Egli risolse la questione di Fiume, firmando con la Iugoslavia il trattato di Rapallo (12 novembre 1920), che riconosceva all'Italia Zara e le isole di Cherso, Lussino, Zara, Lagosta e Cazza, e faceva di Fiume una città libera: tale sarebbe rimasta fino al 1924, anno in cui, con il trattato di Roma, passò sotto la sovranità italiana. Le difficoltà per Giolitti vennero dalla situazione interna, perché cresceva nei ceti medi e nei possidenti, allarmati dalle vittorie socialiste alle elezioni amministrative, l'attesa di una risposta autoritaria, mentre l'opinione pubblica moderata era turbata dal disordine e dalle violenze generate dai tumulti del movimento operaio da quanti speravano di innescare una situazione rivoluzionaria, a somiglianza di quanto era da poco accaduto in Russia, e che stava accadendo in quegli anni in altri paesi della Mitteleuropa come, ad esempio, nell'effimero caso della Repubblica dei consigli Bavarese.

Il 18 settembre 1920, grazie ad un accordo italo-albanese (accordo di Tirana del 2 agosto 1920, in cambio delle pretese italiane su Valona) e ad un accordo con la Grecia, l'isola di Saseno entrò a far parte dell'Italia, la quale la voleva per la sua posizione strategica all'imbocco del Mare Adriatico. Esauritosi il così definito biennio rosso (1919-1920) delle lotte operaie e contadine, la reazione dei ceti medi, degli agrari e degli industriali si indirizzò verso il movimento fascista, le cui violenze vennero ingenuamente assolte come premessa a un auspicato "ritorno all'ordine". Mussolini riuscì così a catalizzare sia le ambizioni di crescita sinora frustrate della piccola borghesia, disposta persino all'uso della violenza, sia lo spirito di rivalsa diffuso tra i grandi detentori di ricchezze, gli agrari in primo luogo, a questi si aggiungevano, come "cani sciolti", i molti studenti universitari affascinati dalla carica eversiva e rivoluzionaria dell'arditismo come dall'idealismo e dalla mistica fascista e infine tutti quei nazionalisti declinanti al patriottismo massimalista. Iniziarono allora le violenze delle squadre di volontari fascisti, le camicie nere, contro le sedi e gli uomini del movimento operaio e socialista. Nelle elezioni politiche del 1921 il Partito nazionale fascista, fondato in quell'anno, ottenne 35 deputati, un numero ancora inferiore a quello dei socialisti ma sufficiente a segnare la sconfitta dei partiti democratici, tra loro profondamente divisi.

Nell'ottobre del 1922 Mussolini chiamò a raccolta i suoi uomini e li organizzò in formazioni di carattere militare, a capo delle quali mise un quadrumvirato composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi. Il 27 ottobre del 1922 le camicie nere si raccolsero in diverse parti d'Italia per dirigersi su Roma (marcia su Roma del 28 ottobre) e chiedere le dimissioni del governo presieduto da Luigi Facta. Questi si rivolse al re perché proclamasse lo stato d'assedio e sciogliesse la manifestazione. Ma Vittorio Emanuele III si oppose e affidò a Mussolini l'incarico di formare il nuovo governo. In questo modo, Mussolini andò al governo a capo di una coalizione di liberali e popolari, che ottenne la maggioranza nel voto parlamentare. Alla vigilia dell'inizio del Ventennio, Vittorio Emanuele III assunse una posizione incerta al profilarsi dell'era fascista. Mussolini salito al potere nel 1922 portò rapidamente il paese ad una deriva autoritaria 1925. Il fascismo in Italia durò fino al 1943, allorquando in seguito ai disastri sui vari fronti militari durante la seconda guerra mondiale e all'approssimarsi dell'invasione alleata dell'Italia, Mussolini fu licenziato dal Gran Consiglio del Fascismo e fatto arrestare dal re.

La politica coloniale fascista (1926-39)

Il fascismo in ambito coloniale propugnava l'Italia quale grande potenza, i cui sogni però erano stati disattesi dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale. Così fin dal suo esordio il fascismo perseguì l'obiettivo di rendere reale il sogno di un impero coloniale italiano. Questo disegno colonialista fu avviato prima in Libia dove nel corso del tempo l'Italia aveva perso il controllo di molte zone. Così Tra il 1926 e il 1931 il regime fascista, con una forte azione repressiva riuscì riprendere il controllo dell'intero territorio libico sia la parte costiera che l'entroterra. Successivamente nel 1936 fu avviata la guerra contro L'Abissinia, con la campagna del generale Rodolfo Graziani che conquistò l'Abissinia con la totale noncuranza delle sanzioni economiche. La guerra all'Abissinia si concluse nel giro di un anno portando il 9 maggio 1936 alla proclamazione dell'impero, e alla nomina di Vittorio Emanuele III, quale Imperatore d'Etiopia. L'Italia fascista continuò successivamente l'ingrandimento del proprio spazio coloniale annettendo a sé l'Albania nel 1939 parallelamente alle conquiste tedesche nel resto d'Europa. In seguito all'ultima annessione il re assunse anche il titolo di Re d'Albania.

Il regno durante la seconda guerra mondiale

A causa delle sanzioni economiche, l'Italia si ritrovò in una situazione sfavorevole, alla quale Mussolini fece fronte con un regime autarchico. Il regime di autosufficienza economica rappresentò una soluzione parziale, dato che all'economia era necessario il commercio: l'unica nazione disposta a commerciare con l'Italia fu la Germania nazista di Hitler, con la quale firmò il Patto d'Acciaio (22 maggio 1939, firmato dai due Ministri degli Esteri: Joachim von Ribbentrop e Galeazzo Ciano), un accordo che sanciva aiuto reciproco in caso di un conflitto e si definì così l'Asse Roma-Berlino.

Nel 1940, Vittorio Emanuele III, anche se personalmente contrario all'entrata in guerra al fianco della Germania nazista, non si oppose alla scelta di Mussolini. Nel 1943 la guerra volse al peggio per l'Asse, dunque il Re, pressato dalle gerarchie militari, destituì Mussolini, sostituendolo con il maresciallo Pietro Badoglio, in seguito al pronunciamento del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. Nel luglio-agosto 1943 il generale Dwight D. Eisenhower guidò lo sbarco in Sicilia: il 10 luglio alcune armate anglo-americane sbarcano sull'isola, liberata il 17 agosto. Mussolini venne fatto arrestare dal re il 26 luglio dello stesso anno, sfiduciato dal Partito Nazionale Fascista, imprigionato a Ponza, poi a La Maddalena e infine, il 27 agosto, a Campo Imperatore, dove venne liberato dai tedeschi il 12 settembre, condotto a Monaco da Hitler e riaccompagnato in Italia, dove il 23 settembre costituì la Repubblica Sociale Italiana (RSI), o Repubblica di Salò (sul lago di Garda). Intanto il nuovo capo del governo Badoglio, il cui mandato iniziò ufficialmente il 26 luglio 1943, condusse trattative segrete che culminarono con la firma dell'armistizio a Cassibile (Siracusa) il 3 settembre, annunciato alla popolazione del Regno solo l'8 settembre. La notte stessa della firma dell'armistizio il Re e il governo fuggirono a Brindisi, che divenne sede provvisoria del governo, mentre alcune armate alleate giunsero a Taranto e a Salerno. In ottobre i tedeschi attuarono l'operazione Achse, con cui le truppe tedesche occuparono le zone dell'Italia non ancora liberate dagli Alleati, e a settembre l'operazione Nubifragio, con cui si annessero il Trentino-Alto Adige, e le provincie di Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. 700'000 soldati italiani furono deportati in Germania.

Nelle città principali, nelle valli settentrionali e nel centro Italia si formarono i primi gruppi partigiani, e la Marina Militare, in osservanza dell'armistizio, si concentrò su Malta. Fra l'ottobre 1943 e il maggio del 1944 la "Linea Gustav" bloccava l'avanzata alleata, che però riprese il suo corso dopo che le truppe tedesche abbandonarono il caposaldo di Cassino. Tra il 28 settembre e il 1º ottobre 1943 a Napoli i partigiani combatterono le quattro giornate di Napoli. Il 13 ottobre l'Italia dichiarò guerra alla Germania. Nel gennaio del 1944 la sede provvisoria del governo fu trasferita a Salerno; fu in questa città che nell'aprile 1944 si formò il primo governo di unità nazionale. Il 22 gennaio le truppe americane sbarcarono ad Anzio ed il 15 febbraio 1944 dei bombardamenti danneggiarono gravemente l'abbazia di Montecassino. L'indomani della liberazione di Roma (4 giugno 1944) da parte delle truppe alleate, Vittorio Emanuele III nominò il figlio Umberto II (il futuro "Re di Maggio") luogotenente del Regno (5 giugno 1944), nel vano tentativo di ritardare il più possibile il momento dell'abdicazione.

Nell'agosto 1944 i partigiani liberarono Firenze, mentre nel novembre dello stesso anno il fronte si stabilizzò lungo la Linea Gotica, ai piedi dell'Appennino tosco-emiliano. Da giugno fino a novembre si svilupparono le lotte partigiane in tutto il nord Italia: l'attività politica e militare della Resistenza venne riconosciuta con l'istituzione del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) e il CVL (Corpo Volontari della Libertà). Il 24 agosto il capo del Governo Bonomi conferì al CLNAI alcuni poteri in Alta Italia.

Tra luglio e agosto 1944 i partigiani formarono la Repubblica di Montefiorino; tra l'agosto e il settembre 1944 si proclamò indipendente la Repubblica libera della Carnia; il 10 settembre 1944 si formò la Repubblica dell'Ossola, che terminerà il 10 ottobre 1944 (i "40 giorni di libertà"); ad Alba i partigiani presero il potere fra l'ottobre e il novembre del 1944. Nell'aprile 1945 le truppe alleate sfondarono la linea gotica e liberarono il nord Italia, aiutate anche dalle numerose insurrezioni nelle principali città (Bologna, Genova, Milano e Torino).

Il 27 aprile Mussolini cercò la fuga in Svizzera con Claretta Petacci, ma venne riconosciuto dai partigiani a Dongo ed ucciso il giorno dopo a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como. Il 1º maggio, truppe partigiane jugoslave occupavano Trieste, anticipando le truppe inglesi, che giunsero il 3 maggio. Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto il 9 maggio 1946, per ritirarsi in esilio ad Alessandria d'Egitto, dove morì il 28 dicembre 1947.

 

Luogotenenza e regno di Umberto II (1944-1946)

La seconda guerra mondiale lasciò l'Italia con un'economia notevolmente compromessa ed una popolazione politicamente divisa. Il malcontento in parte era dovuto all'imbarazzo di una nazione occupata prima dai tedeschi e poi dagli Alleati. Umberto II, passato alla storia come Re di Maggio, ottenne la corona il 9 maggio 1946, quando il padre abdicò in suo favore, ma di fatto aveva cominciato a governare nel giugno 1944, quando il padre, nominandolo luogotenente del Regno, gli affidava la totalità del potere. Come luogotenente Umberto II si distinse per la sua politica molto diversa da quella del padre. Il suo regno ebbe diversi governi capeggiati da Bonomi e De Gasperi che, a seguito delle "tregua istituzionale" videro la partecipazione di tutte le forze politiche democratiche. Il 2 giugno 1946 si tenne il referendum per scegliere fra monarchia e repubblica, referendum voluto dai partiti politici e decretato dallo stesso Umberto II. I risultati furono proclamati dalla Corte di cassazione il 10 giugno 1946, mentre il giorno successivo tutta la stampa dette ampio risalto alla notizia.

La notte fra il 12 e 13 giugno, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il presidente Alcide De Gasperi, prendendo atto del risultato, assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano. Umberto lasciò volontariamente il paese il 13 giugno 1946, diretto a Cascais, una città nel sud del Portogallo, senza nemmeno attendere la definizione dei risultati e la pronuncia sui ricorsi, che saranno respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946. Nel lasciare l'Italia, l'ex re lanciò un proclama agli italiani, in cui denunciava "l'atto rivoluzionario" del Governo. Il 1º gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione repubblicana che, alla XIII disposizione transitoria, stabiliva il divieto di rientro in Italia per gli ex re, le loro consorti e i loro discendenti maschi. Umberto II di Savoia morirà in esilio nel 1983, con il titolo di conte di Sarre.